Il mondo cambia.
Pure noi cambiamo.
Però troppo spesso ci dimentichiamo del passato: non lo capiremo mai senza leggerci dentro. Senza quell’immenso deposito di memoria e di storia sarebbe praticamente impossibile vivere il presente - ed agirci “dentro” – e immaginare un futuro ad esso connesso.
Sarebbe bello poter vedere attraverso quali passaggi la nostra memoria e la nostra esperienza di vita contribuiscano a costruire e a strutturare l’esperienza dell’uomo comune, cioè noi...
”Quante immagini un tempo, e quante fole
Creommi nel pensier l’aspetto vostro...”,
Amo Leopardi e i suoi “pensieri immensi”. Aiutano.
Le ricordanze, già.
Del dopoguerra, per esempio, ricordo molti cambiamenti.
Certe volte repentini, come grandine. Mode. Passioni.
I nostri giochi nei cortili, quei cortili chiassosi, pieni di vita che oggi attraverso e li vedo silenti; non ci sono più le nostre grida di gioco, le nostre rincorse su scale e ballatoi, del sette di via Ornato e l’otto di via Hermada, i cortili più chiassosi conduttori di vita, non c’è più la Ada che ci aspettava con la scopa quando ci si nascondeva nel vano della sua porta.
Poi più avanti, si entrava nell’era dei sogni: mi piaceva l’Alfa Romeo, quando sullo stemma delle auto campeggiava la scritta “Alfa Romeo Milano”. C’era l’orgoglio di un’identità industriale. Di una città che risorgeva dalle rovine della guerra, dai disastri della dittatura. Ricordo ancora la vecchia bicicletta di mio padre, coi cerchi in legno, abbandonata in cantina, dove la lasciavo dopo aver pedalato in giro per il cortile...
Oltre il portone intravedevo la cascina della Peliscera. Un giorno, tornato dalle vacanze, non la vidi più. L’avevano spianata le ruspe.
La cascina era per me come un ultimo baluardo: di qui la città. Di là la campagna. La vita agreste, dicevamo. Era un simbolo del passato.
Oggi la sua area è diventata un parcheggio per le macchine del pronto soccorso dell’ospedale Ca’ Granda.
Ogni tanto con la mente ritorno indietro nel tempo, come se un filo sotterraneo mi legasse per sempre a quel territorio delle nostalgie infantili: per noi ragazzini, la Peliscera era la “fattoria degli animali”. Riconoscevamo i versi striduli delle oche, i muggiti delle mucche, i grugniti dei maiali, lo sgambettare frenetico dei conigli nelle gabbie, il chiocchiolio delle galline, il nitrito dei cavalli, l’abbaiare dispettoso di Fido, il cane che sorvegliava l’aia. L’acqua la si attingeva da un pozzo, bisognava azionare il lungo braccio di ferro della pompa, ed aspettare che saltasse fuori dal grosso rubinetto.
La sera, con fare furtivo, ci infilavamo tra le ortaglie che strappavamo:quelle carote che si mangiavano ancora sporche di terriccio..
Poi capita che i viaggi nella memoria si facciano in una stanza piena di libri.
Non che ne abbia tantissimi, però mi difendo. Sono consolazione e diletto. L’altro giorno ho scovato un opuscolo, la traccia della mia casa, potrei dire. S’intitola “Cento anni di casa in cooperativa”.
L’hanno ricevuto tutti i soci, compendia la storia politica e sociale di queste case, dal 1894 al 1994. C’è una foto, che considero più che esemplare, fondamentale (nel senso di fondamenta...appunto delle nostre abitazioni). Si vedono, seduti gomito a gomito nel salone del Circolo Risorgimento, una miriade di anziani vigorosi e sorridenti.
I nostri padri. I nostri nonni.
Sui loro volti molti di loro portano ancora impresse le rughe della guerra e della lotta antifascista, “quando la lotta non era una lotteria”, né un gioco.
Sono lì, fieri di aver difeso ciò che avevano costruito. Non a caso, la nostra cooperativa era conosciuta come “la casa dei rossi”.
Quel salone ospitava il dopolavoro del Circolo Risorgimento. Se ci fate caso, la scrittache s’intravede sopra il sipario del palco è un messaggio essenziale, semplice, attraente.
Raggiungeva facilmente la gente: “La cooperazione è fronte di lotta per la democrazia”. Sulla parete accanto, i ritratti di due martiri della Resistenza: Giacomo Matteotti e Antonio Gramsci. Peccato che nella foto non si vedono, ma non mi hanno mai lasciato indifferente. Anzi, mi rendevano più consapevole dei sacrifici, dietro le cene e i pranzi di noi lavoratori. In quel salone, che giocavano a carte, c’erano gli operai della Pirelli che indossavano ancora le tute grigie della fabbrica, con l’odore di gomma che si mischiava all’aroma dei sigari “toscani” che si tenevano tra le labbra anche dopo che erano spenti, e profumo di vino, lo squinzano che arrivava in botti in via Hermada 8. Una piccola gru è ancora li a testimoniare quegli scarichi nella cantina.
Due anni prima dell’anno in cui venne scattata quella vecchia foto del pranzo per anziani ero in collegio. Rientrato a casa, alla fine delle elementari, mi piaceva la storia.
In collegio avevamo imparato tutto sulle tre guerre puniche ma della seconda guerra Mondiale, e tanto meno del regime fascista, non ci era stato detto nulla.
Della guerra, però, ricordavo purtroppo bene i bombardamenti. I bombardieri puntavano le fabbriche, che non erano molto lontane da dove vivevamo, e le fughe nei rifugi, che poi erano le cantine sotto casa di via Ornato 7.
Poco per volta, tornato a vivere coi miei dopo il periodo del collegio, cominciai a capire le dinamiche della collettività riunita nella cooperativa.
Giorno dopo giorno capii che cosa era stata la “casa dei rossi” durante la Resistenza al fascismo.
Intendiamoci: col senno di poi è facile spiegarselo, e comprenderne la complessità. Ma allora, per me chi combatteva la dittatura nazifascista non aveva colori, anzi, stava sotto un’unica bandiera. Ma subito dopo la Liberazione, quell’incantesimo - quel sogno unitario che aveva reso la lotta antifascista in un mito eroico - s’infranse. L’unità si spezzettò, ogni partito pretendeva la sua fetta di mito, si allontanava col suo bagaglio di simboli e con la sua ideologia politica.
In quel periodo la nostra cooperativa era stata un’aggregante roccaforte della libertà e della democrazia. Si stava in un perenne stato d’agitazione. E di grande, sentita partecipazione. Per questo, ho scelto di pubblicare quella fotografia.
E’ come se sentissi le note emotive di chi era presente. Note emotive in quanto fan del jazz, ho sempre in testa le note spaziali di In the mood, capolavoro di Glenn Miller e di Benny Goodman, colonna sonora delle forze alleate americane ogni volta che sfilavano nelle manifestazioni che celebravano la Liberazione.
E’ il sound che in automatico ci riporta all’entusiasmo di allora, anche se nel nostro quartiere il fiume Seveso sembrava che metaforicamente dividesse le due cooperative della zona, la nostra e quella dei paulot di via Grivola, e la differenza geografica segnava pure la differenza politica.
Persino nei giochi.
C’era chi preferiva la libertà nei prati o nell’acqua dei canali di irrigazione dei campi che circondavano le nostre abitazioni; e chi, invece, preferiva frequentare l’oratorio. Così passammo gli anni dell’adolescenza, e dell’avvicinamento al lavoro.
Intanto ci portavamo addosso parecchie lacune culturali, l’importanza della conoscenza e la relativa curiosità erano strategiche per l’inserimento sociale: girellando tra i tavoli di quel salone del Circolo Risorgimento, ascoltavo discorsi politici che non capivo ma che avrei desiderato capire . Capitava così che restassi in un angolino, a meditare in silenzio. Mi interessava il più profondo significato delle cose.
Poi ci fu la musica. Che non mi ha più lasciato.
Musica e poesia sono bomba e bandiera.
Erano gli anni del jazz, si stava diffondendo nelle balere e noi ragazzi dei cortili di questa cooperativa ci scatenavamo in estenuanti boogie-woogie che le truppe americane ci avevano lasciato in eredità, come i jeans, la jeep, il chewing gum e la Coca-Cola.
Voleva spaccare l’inerzia della vita quotidiana tradizionale che ci appariva superata e banale, la modernizzazione era anche divertimento, musica, ballo e quel vecchio disco 45 giri, di Gerry Mulligan Walkin, Shoes sentito una infinità di volte.
Un noto musicista statunitense, Aaron Copland, diceva che la “musicalità non necessita della conoscenza del ‘la’”; a furia di ascoltare quel brano lo si fischiettava nei nostri incontri, quasi fosse una parola d’ordine.
Eravamo la generazione jazz.
Il dopoguerra aveva sdoganato - felicità e amori- mutato abitudini e mode, ci aveva reso più disinvolti e più trasgressivi.
Il “bughi” era quasi una religione laica, dovevamo apprenderne regole ed i trucchi. Coi primi mestieri, ottenemmo pure noi il diritto di considerare il dopolavoro una parte del nostro tempo libero. Che trascorrevamo al salone del Circolo.
C’era il biliardo, e poi trovò spazio il juke-box. Finalmente maggiorenni, potevamo entrare senza problemi nelle sale da ballo milanesi, di cui ormai ci sentivamo gran frequentatori. La Milano del “bughi”.
E nelle balere si andava a cercare le ragazze che lo sapevano ballare e durante i lenti, ci stringevamo a loro.... Il ballo approdò anche al Circolo Risorgimento proprio in quel salone che si vede nella foto, dove ogni domenica sera si trasformava in sala da ballo.
Non dimenticherò mai l’Orchestra Hoffmann coi suoi swing senza tregua e lì, in agguato, ci attendeva il destino: a balà ben se faseva la murusa.
Con loro riuscivi a descrivere anche il loro lavoro in fabbrica: templi della produzione, trampolini per un futuro migliore, la porta che ci avrebbe spalancato una vita migliore.
L’età del mio jazz fu l’età del mio apprendistato alla politica e alla voglia di sapere. Molti di noi si iscrissero alla Fgci, la federazione giovanile del partito comunista.
Erano anni di empatia sociale, e case “rosse”.
Mi viene in mente un aforisma attribuito al grande capo Sioux Alce Nero (il western era un’altra frontiera dei nostri spiriti libertari): “La terra non l’ereditiamo dai nostri padri ma l’abbiamo in prestito dai nostri figli”.
Con gli amici del cortile e di quella magica età del nostro jazz, rievoco la concessione della Presidenza della Cooperativa: la possibilità di usufruire, per il ballo, di quel grande salone del Circolo, che gestivamo come volontari...
Alcuni non ci sono più, purtroppo. Se ne sono andati l’Italo Vigezzi, il Luigi Codazzi. Il Lino Ciceri e il Giuliano Casati che erano i nostri due coordinatori (chiedo venia per gli altri che sono scomparsi, o che si sono trasferiti, che comunque non dimentico).
Dopo la chiusura della sala da ballo, per noi fu come se fosse finita una lunga ricreazione, come se l’età delle mele e degli amori avesse abbassato la saracinesca.
Un rito di passaggio: stavamo diventando adulti.
Certo, continuammo ad inseguire la musica nei nuovi locali; il più bello per me rimase il Santa Tecla - ci suonavano Gaber, Jannacci, Celentano, alle prime armi, e Paolo Tomellieri. Il locale, era considerato il tempietto del jazz meneghino salvo che abbia poi ospitato anche il grande romantico del jazz: Chet Baker.
Poco distante da piazza Cavour, dove lavoravo come impaginatore, c’era il Santa Tecla e qualche volta alle due della notte, al termine del mio turno di lavoro in tipografia, dalla composizione alle presse, alla stereotipia e infine alle rotative, dell’Unità e dell’Avanti, coi due quotidiani in tasca freschi di stampa, mi fiondavo con la mia Vespa GS in quella Milano notturna tra qualche taxi che portava a casa gli ultimi nottambuli, arrivavo al Santa Tecla.
Spesso e volentieri non avevo sempre i soldi per l’ingresso, mi accontentavo di stare al bar e ascoltare il be-bop che risuonava dal basso, dove si ballava. Mi gratificava lo stesso.
E, se riascolto i miei vecchi vinili da 33 giri - le strepitose orchestre di Woody Herman, Harry James, Duke Ellington - beh, confesso che mi sento la pelle rabbrividire per l’emozione e per quei ricordi: la nostalgia ti strugge, ma non ti distrugge.
No, mai ci distrugge rivederci giovani e pieni di speranze, anche piccole, anche modeste, ma pur sempre speranze. La musica - e il cinema - sono lo strumento che ci consente i viaggi nel tempo. Non si dimenticano.
Con la musica risentiamo i suoni delle strade, il vociare dei ballatoi, le vibrazioni delle ringhiere, i profumi delle cucine, il senso del villaggio, della comunità, di quella che è stata per tantissimo tempo la mia casa, laddove le ristrutturazioni non hanno cancellato ciò che era.
Rivedo come in un film il mio essere, che sapevo ballare davvero bene: l’ho scoperto in altri anni, quando questo vecchio e fantastico bughi si è trasformato, la musica non è più quella che ricordo, il grande bebop.
E rivedo il vecchio salone, giunto all’ennesima trasformazione, ultima delle quali: “Teatro della Cooperativa”, dedicato a una martire della Resistenza, Gina Galeotti Bianchi, nome di battaglia Lia.
In un pomeriggio di primavera il jazz è tornato in quel salone oramai teatro, con l’orchestra di Paolo Tomelleri generosamente chiamato il Benny Goodman italiano (è ancora in campo...).
A quel concerto, qualcuno batteva col piede il tempo, forse era uno dei frequentatori della ex sala da ballo. Ognuno di noi ha sempre un Altrove nel cuore, nella mente.
Anche oggi che il mondo è radicalmente cambiato rispetto a quegli anni.
Invecchiamo pensando di resistere all’usura del tempo.
Viviamo per andar via, chissà dove.
Io spero in un pianeta che si chiami Jazzland.
Mi guardo attorno e resto sgomento.
Non pensavo che saremmo caduti così in basso: egoismo, razzismo, xenofobia, odio.
Non è per questo che i nostri padri e i nostri nonni di quella foto hanno lottato. E hanno cresciuto i loro figli.
Adesso sembra che persino il jazz sia andato in soffitta. Con gli ideali di giustizia e libertà, democrazia e onestà.