Raccontando - 25/09/2021 inserita da A.P.S.

LA VICINA DELLA PORTA ACCANTO di Carlo Pezzoni

Il coinvolgente racconto di Carlo che ci fa conoscere una persona cara e ripercorre tratti della nostra storia

 

 

La vicina della porta accanto

 

Luciana Baldini se ne è andata. Ci ha lasciato. È la legge della natura, il destino di ognuno di noi. A lei è successo qualche giorno fa, all’inizio di settembre. Mi ha lasciato un vuoto irreparabile, una cicatrice nell’anima, perché Luciana non solo era una mia grande amica, ma era anche la mia vicina. Abbiamo infatti vissuto porta a porta per oltre trent’anni, condiviso tantissime cose, emozioni, ricordi, angosce; ci siamo raccontati le vite nostre e quelle di tanti altri. Sul pianerottolo che ci univa, la sua porta di casa era sempre aperta. Non dovevi mai bussare per entrare: venivi accolto a braccia aperte, lei aveva un sorriso solare con cui ti accoglieva, poiché era davvero felice di vederti. La vicinanza è diventata fin da subito profonda amicizia.

Oggi, quella porta è chiusa. Ma non cancella il ricordo di Luciana, anzi!

Ecco, la rivedo che sta attenta davanti ai fornelli, o seduta mentre lavora di cucito, oppure più comoda sul divano a leggere giornali, libri, volantini. Luciana era appassionata di politica e quando mi invitava a parlare un poco con lei della sinistra o del vecchio Pci, il partito che lei amava, e che continuava ad amare nonostante le sue tormentate vicissitudini, cercava di ragionare sul futuro della sinistra, ricostruendone le origini - quelle su cui ci eravamo formati politicamente. Durante queste lunghe chiacchierate trovava il modo di raccontarmi della sua Ostiglia, la città in cui era nata.

Era poco più anziana di me, aveva vissuto il fascismo da adolescente, suo fratello era diventato partigiano, i fascisti lo braccarono e lei ricordava fin nei minimi dettagli quegli anni di paure e anche di speranze, ed io l’ascoltavo mentre rievocava quel periodo.

Luciana era di natura accogliente e tollerante; confesso che avrei voluto incontrare altri come lei, ma è stato, ed è difficile, trovare qualcuno che potesse assomigliarle, così glielo dicevo. Ormai c’è sempre più gente colpita da un virus malefico che provoca una sonnolenza culturale diventata endemica, gente preparata tecnicamente ma annoiata, tanto da non riuscire a concepire che cose estetizzanti, mai veramente popolari - il “popolare” nel senso che si attribuiva una volta a questa parola. Lei annuiva, e si rammaricava di questa deriva. Chi non ha un passato non può guardare al futuro. Le radici non bastano certo, ma non puoi superare ciò che sei stato se non sai chi sei e da dove vieni.

Spesso univamo il piacere della discussione politica a quello del cibo e della lettura. Gustavamo le reciproche pietanze e ci scambiavamo giornali dei quali rispettava la stampa quotidiana, e non la cestinava, che era diventata un prezioso archivio: il pretesto per rileggere e commentare articoli ed editoriali. Purtroppo, la pandemia ha rarefatto i nostri contatti, ma non al punto da dimenticare ciò su cui Luciana insisteva, ossia l’importanza delle nostre origini, della nostra identità, della terra in cui si è nati e vissuti. Per capire chi siamo, dobbiamo sapere dove siamo. Non è stato complicato, per me, questo processo psicologico: io sono sempre stato nel luogo in cui sono nato e in cui ho speso tutta la mia vita, non potrei concepirne uno diverso, tanto che a volte mi sembra di non essere adatto a nessun altro posto.

Luciana era una mamma e una nonna a tempo pieno, sempre disponibile per tutti: l’empatia era il suo motto. Era altruista, ospitale e generosa. Faceva gratuitamente lavori di cucito e tanti altri favori per chi ne aveva bisogno: non diceva mai di no.

Fuori casa, era un’assidua delle attività di partito nella sezione Gino Giugni di Affori, una gran compagna comunista, ma anche compagna delle serate gastronomiche che la sezione organizzava. Lei si sistemava in cucina e, seduta su uno sgabello, mescolava la polenta in un pentolone che era sistemato sopra un trespolo alimentato a gas. Io, seduto nella tavolata dei commensali, la sbirciavo. Era attenta e paziente. Ogni volta che i nostri sguardi si incrociavano, Luciana sorrideva soddisfatta perché, mi confessò, era un lavoro che le piaceva e che faceva volentieri. Si sentiva quasi in dovere verso la polenta, perché le ricordava la precarietà alimentare del tempo di guerra e degli anni dell’occupazione: questo cibo modesto aveva sfamato milioni di persone. Addirittura desiderava che i paioli della polenta si moltiplicassero e che pure i compagni delle tavolate, seduti nelle cene conviviali della sezione, si moltiplicassero.

Luciana se ne è andata prima che i lavori di ristrutturazione della nostra Cooperativa la privassero della sua piccola serra di fiori, destinata ad essere spostata in un’area comune protetta. Le sarebbe mancata quell’attenzione che dedicava ogni giorno ai suoi fiori, coltivati con cura da floricultrice: puliva le foglie con delicatezza, i suoi piccoli gesti erano quasi carezze. Era dolce col mio cane e l’affetto era ricambiato perché Dylan spesso e volentieri correva per rintanarsi da lei, che lo colmava di attenzione. Piccole, grandi cose mi tornano in mente adesso che continuo ad andare verso la sua porta chiusa. Anche il mio cane, l’altro giorno, ha bussato a suo modo, con le zampe. Poi è tornato indietro, la coda e il muso abbassati, gli occhi tristi, un mugolio che sapeva di pianto.

Addio, Luciana.

 

Carlo Pezzoni

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