C’è un ricordo che non potrò mai cancellare. Perché descrive (magari ingenuamente) chi ero, e il tempo in cui ho scoperto due grandi passioni: quella per la bicicletta. E quella per l’avventura. Cesare Pavese lo chiamava il mestiere di vivere. Io penso che sia anche di più: il coraggio di vivere. E il suo senso morale.
Tutto cominciò tanti anni fa, quando io e mio fratello Cesare eravamo ancora bambini e i nostri genitori decisero che saremmo dovuti andare a trovare i nonni materni a Cisano sul Neva, un paesino dell’entroterra di Albenga. Durante il viaggio, restammo a guardare il panorama con occhi sgranati: dai finestrini del treno avevamo visto per la prima volta il mare e avevamo chiesto alla mamma quanto fosse piovuto…Dopo quel viaggio e le vacanze dai nonni, tornammo a Milano e ci toccò andare in collegio. Il nostro piccolo mondo di ragazzini ruotava attorno al cortile, dove riprendemmo i soliti giochi e dove a far da regina era la bicicletta, il giocattolo più bello ed ambito. I grandi la usavano per andare al lavoro, accorciava le distanze, mentre se volevi fare una gita, le distanze le allungavi, e te la godevi. Certo, il mio grande sogno era potere avere una bici da corsa, ma costava uno stipendio e non ce lo poteva permettere, perché quei soldi servivano per vivere. Erano anni in cui la maggior parte degli italiani non scialavano una lira. Anni duri. Anni difficili. Anni, però, in cui vedevi lentamente migliorare la qualità della vita.
Erano pure gli anni in cui il ciclismo voleva dire Coppi e Bartali, sfide epocali, emozioni, tifo straordinario: l’Italia era divisa in due parrocchie, i “coppiani” e i “bartaliani”. Onoravano lo sport delle due ruote e ridavano fiducia ed orgoglio all’Italia sconfitta, umiliata dal disastro del fascismo e dalle cricche che sfruttavano ignobilmente le classi operaie e contadine. Allora, il ciclismo era più popolare del calcio, e Milano era fortunata perché da lì arrivava e partiva il Giro, da lì partiva la Milano-Sanremo, lì c’era il tempio della velocità, lo splendido Vigorelli. E a Niguarda, proprio in via Ornato, passava il trofeo Baracchi: lo rammento ancora il punto più insidioso del percorso, c’era l’angolo della discesa del ponte sul fiume Seveso, subito ti toccava affrontare il pavé e i binari del tram e questo costringeva i corridori a rallentare. Il posto perfetto per assieparci e ammirare i corridori, ogni volta che frenavano quasi ti sembrava di poterli toccare, li vedevi in faccia, spiavi le loro smorfie - la fatica è una gran brutta bestia, anche per i campioni - così ho potuto vedere bene Fausto Coppi in coppia con Filippi nell’edizione del 1953, furono loro due che vinsero quel Baracchi, trionfando al Vigorelli. Trascinati dall’entusiasmo per quel successo, subito pensammo di emulare Coppi, Filippi e tutti gli altri corridori scatenandoci in cortile con bici improvvisate, mentre venivamo coperti di rimbrotti da zio Armando, il custode della portineria. Per calmarci un poco, ci urlava dietro “ma perché andì nò un pù a spass”(ma perché non andate un po’ a spasso). Quel giorno lo prendemmo in parola. Per noi non era stato un rimprovero, ma un invito. Ne parlammo, io e Cesare. Dovevamo inventarci qualcosa di serio. Un giro in bicicletta di quelli che non avremmo mai più dimenticato. Un’avventura. La passione della bicicletta dovevamo trasformarla in sfida. In confronto: con noi stessi. E un’idea ce l’avevamo. Anzi, a dire il vero, ne avevamo già parlato, Cesare ed io, prima di quel Baracchi. Ma se allora ci era parsa una follìa, una cosa da dire ma irrealizzabile, ora ci sentivamo in grado di tentarla: andare da via Ornato a Cisano sul Neva. A casa dei nonni. A vedere di nuovo il mare, che non avevamo più visto dopo il viaggio in treno. Potevamo così combinare il desiderio del mare e la gioia di andarci in bicicletta, con le sole nostre forze. E gratis. Eravamo inoltre ben consci che si sarebbe trattato di un azzardo: ben 230 km, quasi una Milano-Sanremo…una distanza da professionisti. A pensarci, ci si gonfiava il petto… (seconda parte ) e riempivamo le pause delle nostre discussioni con tanti sospiri. Il progetto, poco per volta, prendeva forma, e non aspettavamo altro che metterlo in pratica.
Con noi si era unito un amico del cortile, uno che in bici ci sapeva fare. L’Antonio correva nelle gare per esordienti, dunque aveva un po’ di dimestichezza con i problemi dei lunghi tragitti e delle difficoltà da affrontare, sia per quel che riguardava la preparazione, sia per l’alimentazione - se mangi e bevi male, schiatti. Il gran giorno arrivò, finalmente, nel mese d’agosto dell’anno successivo alla vittoria di Coppi-Filippi al Baracchi, l’anno di grazia 1954. Io avevo quindici anni, come Antonio, Cesare uno meno di noi: insieme, 44 anni. Tre adolescenti col cuore che batteva forte, la sicurezza che non era spavalderia ma ottimismo. Ce la faremo, gridammo tutti e tre, mentre inforcavamo le nostre bici. Lasciammo il cortile di via Ornato in una notte d’estate, la stagione che Vincenzo Cardarelli nella sua poesia “Estiva” definiva la meno dolente. Beh, quella volta fu invece esattamente il contrario. Fu infatti assai dolente grattugiare la sella per tutti quei chilometri, su bici che oggi sarebbero considerate dei cancelli.
Va detto che allora non è che fossimo in vacanza, ma in ferie. Già. La nostra adolescenza alternava gioco e lavoro, e per andare dai nonni stavamo utilizzando quel poco che ci spettava, prima di ritornare in fabbrica (sempre pedalando e, si sa, pedalare stanca). Ci si consolava e ci si illudeva ripetendo una frase che a quei tempi era il mantra del proletariato, quella del povero che diventava ricco correndo in bicicletta, mentre sapevamo benissimo che era come vincere al Totocalcio e poi, in verità, nulla di ciò aveva a che vedere alla nostra grande idea, perché per noi contava solamente riuscire a raggiungere il paesino dei nonni. Un traguardo ambizioso perché traguardo di vita. Avevamo puntato un obiettivo, stava a noi, e soltanto a noi, raggiungerlo: con le nostre forze fisiche e mentali. I pedali dovevano essere spinti non soltanto dai muscoli, ma dall’ardore, dalla gioia, dalla temerarietà.
Ho ancora fissata nella mente l’immagine della partenza, del nostro “via”: era la notte di san Lorenzo, e il cielo era stellato come ormai non si vede più, per colpa dell’inquinamento e dell’eccesso di luminosità urbana. Avemmo la sensazione che le stelle ci stessero a guardare, e che quasi proteggessero i tre ragazzi decisi a conseguire l’impresa. Lanciammo uno sguardo al cielo, tutti col naso all’insù. Si diceva che in quella notte di stelle cadenti, se ne catturavi una con lo sguardo dovevi esprimere un desiderio. In cuor nostro, speravamo nella buona stella che ci accompagnasse sino a Cisano sul Neva, sani e salvi. E qualcosa avvenne. Zio Vitur era arrivato in soccorso, e mi prestò la sua bici, una Bestetti da passeggio. Lo presi come un segno del destino. Anzi, addirittura mi arrampicai sulle ali (o meglio, sui pedali) della fantasia. Analogia ardimentosa con Fausto Coppi. Perché avevo letto da qualche parte, o forse me l’aveva raccontato qualcuno, che anche il Campionissimo, come prima bicicletta, ebbe da uno zio un’Aquila da passeggio.
Cesare, il più coraggioso di noi, poteva sfruttare la fiammante bici metallizzata che nostro padre aveva regalato alla mamma per un suo compleanno: brillava come una collana, e ciò lo inorgogliva. Come la bici quella dell’Antonio aveva il cambio di velocità che, se ben ricordo a tre rapporti comunque sempre più faticosi degli attuali che vengono montati sulle mountain bike, per inteso il più agile era un 46/20 e credo così anche per l’Antonio, mentre la mia Bestetti era di un unico rapporto, comunque, sono considerazioni che faccio ora perché il rapporto che ci univa, come diceva Gianni Motta, era calcare sui pedali per arrivare a Cisano sul Neva. L’unica tristezza che ci portavamo dentro come un pezzo di piombo nel cuore, era che a vederci partire non ci fossero né nostro padre, né quello di Antonio. Erano scomparsi due anni prima, sono sicuro che sarebbero stati i più allegri e fieri in quella piccola folla che si era radunata per festeggiare la nostra partenza. C’era anche chi aveva combattuto come partigiano, durante la Resistenza, soprattutto c’era gente che aveva dovuto sopportare tante, troppe difficoltà. Era, la generazione dei nostri genitori, ma anche la nostra, una generazione povera ed eroica, valente, risoluta anche se non fortunata. Abituata alla fatica, ai disagi, a stringere davvero la cinghia: i nostri genitori, per sfamare le famiglie, percorrevano chilometri e chilometri in bicicletta per raggiungere le cascine (anche fuori provincia), dove comprare a buon mercato alimenti e farina. Tornavano carichi come muli, sudore e polvere addosso, quindi in fondo non li preoccupava più di tanto la certezza che avremmo comunque dovuto sopportare chissà quali sforzi, noi mascheravamo le probabili difficoltà con la magica parola “avventura”, ma l’avventura voleva dire fatica, e la fatica era la vita di quei tempi.
Non mancarono i soliti spiritosi. Uno, che diceva di conoscere le caratteristiche del percorso, ci mise in guardia: “Huè!! guarda che el Turchin l’è minga la Ghisulfa! (guardate che il Turchino non è la Ghisolfa), ma già lo sapevamo, Antonio era arrivato tante volte sino a Pavia, quando andava con lo zio Arturo a pescare sul Ticino. Però, quello era il tratto più facile, piatto…in attesa delle prime salite, ci rinfrancò il fatto - e la fortuna - che il cielo stellato ci illuminasse il percorso assieme alla luce debole dei nostri faretti, alimentati dalle dinamo che rullando sulla ruota anteriore diffondeva un sibilo che ci teneva compagnia. Antonio non aveva il faretto, perciò si era messo in scia. Purtroppo, a Pavia le lampadine si bruciarono all’improvviso e restammo tutti e tre al buio, però non soli: c’era il gracidìo delle rane a tenerci compagnia dal vicino Naviglio. Alla nostra destra, l’ombra lunga e scura dei pioppi in filare, ingigantita dalla luce della luna, sembrava quella di gigantesche forme umane, quasi da fumetto alla Dylan Dog, l’investigatore dell’incubo. Dalle parti di Tortona, alcuni contadini che si recavano nei campi ci guardarono stupiti, o almeno così mi parve. Giunti ai piedi del Turchino, ci inquietò non poco il cartello che ne segnalava l’altitudine, 560 metri: mai avevamo affrontato una salita del genere. Però ci riuscimmo, sia pure pedalando così lenti, che eravamo a un pelo dal surplace…la fatica aveva già avvelenato i nostri muscoli, e la discesa arrivò come una liberazione. Picchiando verso Voltri, senza la borraccia (una sciocchezza non averla portata), ci siamo aggrappati, come i naufraghi alla zattera, sul bordo di pietra di una provvidenziale benedetta fontanella. Eravamo divorati dalla sete.
Quell’arsura la descrisse magnificamente il mio amico Mario Fossati nella cronaca di una tappa del Tour de France: ”I corridori alla vista di una piscina l’avevano asciugata con gli occhi”. E fosse stata solo la sete. Eravamo affamati come lupi. Al primo negozio di alimentari che trovammo aperto, ci infilammo in un battibaleno e comprammo più pane che companatico, al punto che il proprietario ci chiese: “Gli altri dove sono?”. A stomaco pieno, decidemmo di riposare. C’erano delle panchine, e ci sdraiammo distrutti. Una pennichella veloce, poi di nuovo in sella, diretti ai Piani d’Invrea, che non erano piani, ma in salita. Arrivammo che era già sera avanzata, a Cisano. Sfiatati, sfessati. Avevamo perso sguardo e favella. Eravamo arrivati stremati al nostro traguardo. Se l’avessimo passato a braccia alzate, saremmo crollati a terra. Come gli eroi assiderati del Bondone, nel Giro del 1956… (a proposito di arrivi con le braccia alzate, l’allora Ct della nazionale di ciclismo, Alfredo Martini - con cui parlavo spesso quando seguivo giri e corse ciclistiche per professionisti - mi diceva che Fausto Coppi, superava i traguardi vittoriosi senza esultare sollevando le braccia).
Scesi di bicicletta, a stento ci reggevamo in piedi. Maciullati dalla fatica, però tanto felici di avercela fatta…I nonni non avevano un posto per farci dormire ma a nostra disposizione c’era il fienile, che ospitava due pecore e una capra. Trascorremmo qualche giorno, per riprenderci dallo sforzo. Al mattino, quando ci si svegliava, erano alzate evangeliche, da Lazzaro, con ricadute da convalescenza affrettata. A sud di Cisano, c’era il mare. A nord il colle san Bernardino (1.150 metri) che segnava il confine tra Liguria e Piemonte. Scendendo dall’altro lato, si trovava Garessio, dove era nata la mamma. Non avemmo la forza per andarci. Anzi, non ci siamo mai mossi in bicicletta, a Cisano: si andava a nuotare nel fiume Neva.
Dovevamo tornare. Ormai eravamo spiritualmente pronti a ripetere la Grande Fatica. E, tuttavia, la strada del ritorno non pareva la stessa dell’andata. Pedalammo forse più consapevoli di come dosare le nostre energie. Arrivati nei pressi di Pavia, ritrovammo l’amico Naviglio, la nostra bussola per ritornare a casa. E rivedemmo il campo con quei lunghi filari di pioppi che mi aveva impressionato la notte di san Lorenzo, all’andata. Infine, eccoci a casa. Ancora oggi, quasi inconsciamente sospiro. Come se fossi ancora su quel sellino…oggi posso dire che non il nostro obiettivo non era stabilire un primato per il nostro personale guiness, bensì misurare la potenza del nostro entusiasmo, e tutto ciò che quasi settant’anni dopo ha avuto significato per me, nei ricordi, nei pensieri, nelle annotazioni e nelle domande che ci si deve porre meditando sulle nostre piccole e/o grandi esperienze. L’impresa di Cisano rimase incancellabile non solo nelle gambe, ma anche nella testa. Scoprimmo che se ti poni un obiettivo, per quanto ambizioso potesse essere, se hai la volontà di raggiungerlo, lo raggiungerai. Dopo quella sgroppata, sono passato alle maratone di nuoto mentre mio fratello è diventato un abile pilota di rallyes, specializzandosi nel più difficile e mitico di tutti, la Parigi-Dakar quando era quella del Sahara. Antonio ha invece continuato a correre in bici vincendo due corse da allievo; dopo quelle corroboranti vittorie, decise di smettere con l’agonismo di quel livello e tornò di nuovo a pescare. Quanto a ritorni, sono andato altre volte in quell’entroterra ligure che tanto mi aveva fatto patire (fisicamente) nella favolosa estate del 1954. Da ciclista amatoriale, da uomo maturo e con una bici da corsa degna di questo nome, sebbene di qualità tecnologica inferiore rispetto ai modelli più recenti ultraleggeri e in fibra di carbonio. Come allora, per me contava di più essere e pedalare su quelle strade, immersi nei profumi dell’entroterra ligure, lungo i saliscendi che lo caratterizzano e ci fanno sudare - sano, s’intende. Soffermandoci quando vuoi goderti in pace il tripudio delle ginestre in fiori che costeggiano le strade, libere e rigogliose, gialle che si stagliano sul verde dei boschi e il blu del cielo, le ginestre che amava e rallegrava Leopardi, il “fior gentile” consapevole della propria fragilità, ci allieta con i suoi cespugli profumati, abbellendo il nostro vedere: per Leopardi, la ginestra è il simbolo del coraggio e della resistenza estrema, nonostante il destino inevitabile, quello che ci accomuna tutti, ricchi e poveri, potenti e ultimi. Pedalando, il mio cardiofrequenzimetro non segnalava le emozioni struggenti che il vento dei ricordi portava alla mente e al cuore; le macchine ancora non ne sono capaci. Perché ogni volta che mi reco in vacanza in quei luoghi, dall’alto dei viadotti della A-10, rivedo in basso la strada che sale al Turchino e rivedo, come fossi lì, quei tre ragazzi che volevano vedere il mare, e che ebbero le stelle per navigatore.