Nell’anno in cui le iene sbranarono i cammelli, i contadini ammazzarono le iene e il fabbro morì di crepacuore, poco prima che la pioggia di fulmini incendiasse il ceppo marcio dell’ulivo secolare piantato alle porte della città, re Anatolio di Selem decise di pubblicare un editto.
Anatolio lesse l’editto, arricciò il naso e fece convocare Cosimo, lo scrivano di corte, che entrò nella stanza strisciando i sandali sulla pietra grezza del pavimento e si mise a sedere lontano dal re per evitare gli oggetti che il signore di Selem aveva l’abitudine di scagliare in direzione dei propri sudditi quando era scontento del loro operato. La calda luce del deserto filtrava dal lucernario illuminando la corona del sovrano e il suo volto scuro.
I due uomini erano separati da un tappeto ricavato dalla pelle di un orice dalle corna a sciabola di cui Anatolio andava fiero. Gli era stato donato, parecchi anni prima, da un re numida per l’aiuto prestato da Selem nella guerra contro i Nasamoni. Eccetto il trono e il tappeto, la stanza era spoglia.
Anatolio abbassò la testa, guardò in tralice il servo e, avvicinandosi, gli porse la pergamena.
«Leggi il mio editto» ordinò.
«Mio signore»
Il servo accondiscese con umiltà, piegando la testa, e cominciò la lettura.
MCXLI a.U.c., decimonono genetliaco della gloriosa incoronazione dell’Augusto Imperatore Diocleziano.
Nel regno di Selem, in Tripolitania, provincia del Romano Impero, Anatolio il grande, signore di queste terre per volere di Cesare e degli dèi, proclama aperta la caccia al drago.
A chiunque riuscirà nell’impresa di uccidere l’orrendo mostro il sovrano offrirà come ricompensa tutte le monete d’oro e d’argento di cui dispone.
Il re promette altresì di divedere a metà, per la durata di venti anni, le tazze e ogni altro provento derivante dall’esercizio della sovranità.
Al prode capace dell’impresa verrà inoltre concessa la mano della graziosissima principessa Silene.
«Tasse, pezzo di imbecille! Tasse! Che me ne frega delle tazze?» urlò rabbioso il re.
«Mio signore… mio signore…», balbettò il servo.
«Inutile che mi preghi. Sei diventato vecchio, questo è quanto.»
Cosimo, che svolgeva il compito di scrivano dai tempi del padre di Anatolio, il supremo Aurelio, indulgente nei confronti degli errori redazionali per via del suo analfabetismo, era considerato l’uomo più istruito del regno. Si diceva che nell’esercizio del suo incarico avesse sempre perseguito la verità, sebbene fra le tante verità possibili nessuna gli apparisse più manifesta della necessità di riempirsi lo stomaco. Ne era assertore tanto convinto da ritenere superfluo divulgarla, mentre, allo scopo di difenderla, non lesinava in panegirici per nascondere altre verità non meno autentiche, ma forse inopportune, sui sovrani di Selem.
Adulazione e dissimulazione, le armi che più spesso adottava per conservare la benevolenza dei suoi padroni, erano divenute accorgimenti indispensabili da quando l’artrite gli aveva storpiato le dita e le cataratte gli avevano offuscato la vista. Il timore che le sue infermità potessero spingere Anatolio a cacciarlo dalla corte, costringendolo a mendicare, funsero da formidabile sprono al suo servilismo e la sordità incipiente ovattò, assieme ai rumori, anche le blande proteste della sua coscienza.
«Mio signore, l’errore c’è, non si può negare. A mia discolpa posso solo far notare a vostra maestà la gibbosità della pelle. Ecco, se mettete un dito qui…»
«Un corno, tu e i conciatori! L’unica gobba presente in questa stanza è quella sulla tua schiena, che raddrizzerò a bastonate se non correggerai lo sbaglio.»
«Mio signore», tentò di difendersi Cosimo, sbiancando, «non dovete dare a questa piccola svista maggiore importanza di quanta non ne abbia. Il popolo non sa leggere. Spetterà ai banditori correggere l’errore quando declameranno il documento nelle piazze.»
«Non è il popolo che mi interessa. Questo editto dovrà fare il giro delle provincie. Il suo scopo è quello di attirare nel nostro regno il fiore della cavalleria. E i cavalieri sanno leggere, non sono dei pezzi d’asini come te!»
«La signoria vostra, come sempre, ha una visione luminosa della verità, ma credo di potervi consolare. Io ormai sono vecchio, da quando ho raggiunto i settant’anni ho smesso di contare la mia età e da quella data sono ormai trascorsi duemilacinquecentosette giorni. Grazie alla mia esperienza posso affermare che sono pochi i cavalieri che hanno l’abitudine di leggere e fra questi non figurano certo i migliori a maneggiare la spada.»
«Idioti e ignoranti. Questo è vero.»
«Sono uomini abituati a combattere per la loro vita e addestrati a farlo.»
«Rozzi, ubriaconi, impertinenti e chiassosi. Ecco cosa sono.»
«Ma abili nell’uso delle armi, mio signore.»
«Questo lo dicono loro, ma io non mi fido. Io sì che ero bravo con le armi, quando ero più giovane.»
«Mio signore, mai ho ammirato nella mia lunga vita uomo che possieda le qualità del cavaliere meglio di voi.»
«Dici il vero, scriba.» Il re gonfiò il petto. «Ma l’editto non va bene lo stesso. Lo devi correggere.»
«Spiegatemi come e rimedierò subito.»
Anatolio curvò la schiena in avanti, accavallò le gambe, stese il documento sulle ginocchia e lo rilesse due volte da cima a fondo.
«Ma sei certo della data? Dalla fondazione di Roma, dico.»
«Se non è sicuro vostra maestà, come potrà esserlo un semplice cavaliere?»
«Su questo hai di nuovo ragione.»
Anatolio andava quietandosi e Cosimo azzardò un movimento, nel tentativo di trovare una posizione più comoda. Il re parve dimenticarsi della sua presenza e si lasciò sfuggire una riflessione a mezza voce.
«Dovrebbe bastare per salvare la mia piccola Silene.»
Poi tornò col pensiero al giorno in cui tutta quella storia aveva avuto inizio.