Il discendente di mio nonno
Un giorno mi venne affidato l’incarico di sistemare in un alloggio sicuro un compagno rientrato clandestinamente dalla Francia.
È opportuno che io chiarisca che la mia attività di partigiano, a quel tempo, consisteva anche nel procurare case-alloggio all’organizzazione, naturalmente scelte e selezionate, data la loro funzione delicatissima, con ogni cautela e con tutti i sacrosanti crismi della cospirazione.
Il partito aveva sempre bisogno di queste case perché per un’attività clandestina come la nostra era impossibile farne a meno, in quanto si trattava di mettere spesso al sicuro compagni ricercati dalla polizia, a volte di alloggiare temporaneamente compagni di passaggio da Milano, oppure, nei casi più frequenti, di fornire un alloggio clandestino a elementi nostri che sotto falso nome operavano nella Resistenza e che, come del resto era accaduto anche a me, fossero stati costretti ad abbandonare la propria abitazione.
E così avevo potuto realizzare, con un lavoro paziente, una discreta rete di alloggi i cui titolari, appartenenti per lo più alla schiera dei miei ex colleghi d’ufficio, conoscenti, amici, amici di amici, avevano sfollato fuori città con armi e bagagli per paura dei bombardamenti aerei, lasciandomi fiduciosamente in consegna le chiavi di casa in attesa che finisse la guerra.
Costoro lo facevano per farmi un favore o per ottenere un contributo in pecunia per pagare il secondo affitto della casa di campagna, oppure per sfuggire al pericolo di avere l’appartamento requisito perché rimasto per troppo tempo disabitato, ma qualcuno che conosceva le mie convinzioni politiche e il mio passato, aveva capito al volo l’uso che avrei fatto della sua casa, accettando tuttavia con ammirevole consapevolezza tutti i probabili rischi.
Devo inoltre aggiungere che, in quegli anni tremendi di guerra, il problema della casa a Milano era diventato disastroso poiché la vita in città, sotto quest’aspetto, si trovava in pieno caos. Quasi ogni giorno i bombardamenti radevano al suolo interi palazzi e intere strade. Molte case, quando non erano addirittura cumuli di macerie, erano diventate però inabitabili perché pericolanti, mentre migliaia e migliaia di persone erano quasi ogni giorno costrette a cercarsi disperatamente un luogo qualsiasi, un buco qualunque per rifugiarsi, per accamparsi con la famiglia anche come zingari, pur di essere al riparo e chiusi fra quattro mura. E il numero dei cosiddetti senzatetto aumentava continuamente.
In una situazione tanto sconvolta, devo dire che mi era abbastanza facile contrabbandare per veri e rendere perciò credibili i più svariati pretesti che ogni volta sfornavo con disinvoltura per conquistare la fiducia dei miei provvidenziali sfollati. E quello che più conta è che l’organizzazione non ebbe mai, per quanto ne sappia, nessun guaio da queste case clandestine.
Ecco dunque che per il compagno rientrato dalla Francia, mi era capitato un ottimo appartamento: moderno, ben arredato, dotato di tutti i servizi, ma soprattutto sicuro. Il suo proprietario, un antifascista serio, responsabile e molto prudente, me lo aveva affidato a patto che lo usassi esclusivamente nell’interesse della lotta di Liberazione. Non potendo partecipare alla Resistenza in altro modo, aveva voluto contribuirvi almeno con la propria casa.
Fu in un pomeriggio pieno di sole che mi recai perciò al recapito convenuto, una portineria di un palazzo in via Monte Rosa, a prelevare il mio protetto.
Lo guardai con interesse. Era di statura media, ma ben piantato e tracagnotto. Aveva i capelli rasati di recente e la barba lunga di qualche giorno, perciò, a prima vista, mi sembrò subito Jean Valjean dei Miserabili o comunque un forzato evaso dalla Cayenna. Anche la sua voce, come la sua figura, era piuttosto robusta.
Poche parole e pochi saluti scambiati frettolosamente nella portineria, quindi ce ne andammo. Mentre ci incamminavamo per raggiungere la fermata del tram, mi accorsi che il mio uomo si sforzava di apparire tranquillo, ma dalle sue prime parole, dette così per dir qualcosa, capii che in realtà non lo era. Sembrava sulle spine e, pur non avendo nulla di chi è dominato da una paura mortificante, trapelava in lui una certa inquietudine nel trovarsi per la strada, esposto agli occhi di tutti, col rischio sempre presente di essere catturato da un momento all’altro. Quando fummo sul tram non poté trattenersi e mi disse sottovoce: “Scusa compagno, ma qui a Milano si circola così facilmente? Non c'è il pericolo che blocchino il tram e facciano una retata?”.
Risposi che, certo, il pericolo c’era, però al momento le probabilità erano alquanto scarse e, toccando ferro, potevamo stare tranquilli. Mi spiegò allora che in Francia la situazione era tutta diversa, là esisteva veramente il terrore perché quasi ogni giorno i tedeschi operavano delle retate sui tram e per le strade.
“Ecco perché - concluse sorridendo - mi avrai visto un po’ preoccupato. Pensavo che a Milano ci fosse una situazione pressappoco uguale a quella francese. Meglio così, qui sono rose e fiori!”. Mi apparve finalmente più sollevato e che incominciasse a godersi, si fa per dire, il piacere di essere a spasso con quel bel sole pomeridiano.
Il suo viso mi era simpatico. Mi piaceva anche il suo modo colorito di parlare perché mi ricordava mio nonno.
Potrà forse far sorridere questo richiamo a mio nonno, ma non posso nascondere che la vita randagia e travagliata di mio nonno ebbe sempre su di me un grande fascino specialmente durante la mia infanzia e nei primi anni della mia giovinezza. Ma a parte questa utile considerazione, devo precisare che anche mio nonno visse da fuoruscito per molti anni all’estero e particolarmente in Francia dopo essere fuggito dall’Italia, la prima volta in seguito allo stato d’assedio imposto a Milano nel 1898 dal generale Bava Beccaris e successivamente perché ricercato dalla polizia fascista. Lo sentii spesso parlare di quando era a Londra con Errico Malatesta e Pietro Gori, e poi in Belgio e quindi in Svizzera dove aveva conosciuto Pietro Kropotkin, ma soprattutto della sua amata Francia nella quale aveva vissuto tante battaglie famose girando per le piazze di Parigi con una sedia su cui montava tenendo comizi in difesa di Dreyfus e di Emilio Zola. E anche mio nonno, come il mio Jean Valjean, aveva acquistato lo stesso modo di parlare usando, ma spesso abusandone, con innocente civetteria molte espressioni tipiche della parlata francese.
Si trattava in realtà di due generazioni diverse e di due diverse epoche con differenti temi di lotta politica, ma i motivi che avevano costretto entrambi ad abbandonare l’Italia si potevano dire identici, poiché in comune essi avevano avuto l’odio contro la tirannia e l’amore per la libertà.
Mentre di mio nonno sapevo tutto, del mio misterioso compagno non sapevo invece nulla, né l’età, né il suo passato, né tanto meno il nome. Però nelle poche ore trascorse in sua compagnia mentre lo accompagnavo nella sua bella casa di via Pier Luigi da Palestrina, a pochi passi da piazzale Loreto, l’involontario e casuale accostamento al vivo ricordo di mio nonno si scolpì in me in modo incancellabile.
Mi capitò varie volte di rivedere dopo la Liberazione il compagno Willy, alias Stefano Schiapparelli, il quale non volle mai perdere l’occasione per rammentarmi con allegra soddisfazione gli aspetti piacevoli della sua famosa casa clandestina di Milano.
Ho voluto narrare questo episodio perché fra i tanti casi analoghi e cioè di compagni da me alloggiati in case clandestine, è quello che più di ogni altro mi è rimasto vivo e lucido nella memoria a distanza di tanti anni. E la ragione si spiega in quanto il fuoruscito compagno Willy, quasi per un curioso concatenarsi di elementi associativi a me tanto familiari nonostante le sostanziali differenze di posizione ideologica e di formazione politica, mi apparve idealmente come il diretto discendente, nell’albero genealogico dei fuorusciti italiani, di quell’altro vecchio fuoruscito che fu mio nonno.