Raccontando - 18/07/2018 inserita da A.P.S.

INCONTRI AL PARCO NORD di Carlo Pezzoni

Il mese di luglio č sempre stato per me il mese della Grande Boucle, cioč il mese in cui inizia e si conclude il Tour de France ed al quale dedico, ormai credo da una vita, qualche ora del mio pomeriggio. ...

 

Il mese di luglio è sempre stato per me il mese della Grande Boucle, cioè il mese in cui inizia e si conclude il Tour de France ed al quale dedico, ormai credo da una vita, qualche ora del mio pomeriggio: seguo infatti ogni istante delle telecronache, che sono come recite di un copione appassionante. Le scaramucce dei primi chilometri, la fuga, l’inseguimento del gruppo, gli scatti dei velocisti se la tappa è adatta ai loro mezzi, le arrampicate asfissianti degli scalatori se le strade puntano al cielo. Mi gusto anche le inquadrature sui telai delle biciclette, le maglie dei corridori, le auto del seguito: con le loro scritte che se riprese in tv fanno la gioia degli sponsor (e pure quella dei gregari, perché vengono pagati a...tempo d’esposizione televisiva).

Eppure, non ho mai avuto un solo attimo di noia. Anzi. Partecipavo - idealmente, s’intende - alla sconcia fatica di quei ragazzi che a pochi chilometri dall’arrivo magari vedevano sfumare tutti i loro sacrifici e le loro speranze dall’incalzare implacabile degli inseguitori, dalla strategia delle squadre più forti, quelle che spadroneggiano in corsa e che decidono il bello e il brutto della tappa. Stavo dalla parte dei più deboli, dei peones, perché si meritavano la loro fetta di gloria. Ma poi mi godevo i finali, perché il Tour non ha mai tregua: sino all’ultimo metro si combatte. Si perde. Si vince. Quasi mai, il gruppo-cannibale generosamente concedeva agli stremati fuggitivi la soddisfazione del podio. Certo, quando succedeva voleva dire che tra quei peones covava il germe di un potenziale campioncino. D’altra parte, al Tour vanno solo i migliori. I più forti. Il ciclismo di oggi è frutto di calcolate strategie, di accurate preparazioni tecniche e mediche. Nulla è lasciato al caso. Purtroppo, anche alla manipolazione del doping...

Concluso il rito della tappa quotidiana, cercavo qualcos’altro per mitigare lo stress telesportivo: quale migliore medicina della musicoterapia? E lì, puntavo al Mont Ventoux del pentagramma: Beethoven. E mi issavo sulle note sublimi della Quinta Sinfonia, dai suoni enigmatici, dai riverberi mentali che il gran pubblico della musica classica immagina come “il bussare del destino alla porta”. Quel destino che a volte dona e a volte toglie: a me, mai ha tolto, mentre ascoltavo la Quinta, ed era come se il sole avesse scelto di irraggiarmi lì dentro, nella mia cameretta, e mi invitasse ad uscire, a pigliare la bici, a rivivere con la memoria di quelle note, anche l’agonistica sofferenza dei corridori. Una colonna sonora in sella e mi fiondavo verso il Parco Nord.

Se al posto della Quinta avessi ascoltato la saga della Primavera di Strawinsky, l’avrei considerata perfetta per la mia biciclettata in mezzo alla natura rigogliosa del Parco. E forse, per questo preferivo andarci di mattina, per godermi quel leggero venticello che mi spingeva e mi dava l’impressione di essere anch’io chino sul manubrio come i corridori del Tour. Di tanto in tanto venivo sfiorato da altri ciclisti che filavano veloci, li conoscevo, alcuni erano accaniti cicloamatori che, subito dopo aver visto la tappa del Tour in tv scendevano in strada, montavano sulle loro bici e poi, dopo un po’, si fermavano per discutere della corsa, mentre qualcun altro s’impegnava a rischio di lasciarci le penne sul circuito del Parco per imitare i loro beniamini, dimenticandosi della carta d’identità, e dell’inesorabile incalzare anagrafico.

Seguendo il tracciato del circuito attorno al laghetto del Parco, sbirciavo le piccole trasgressioni dei ragazzi che si tuffavano, sfidando i divieti di balneazione, rischiando la sanzione se venivano beccati dalle guardie del Parco. Quei cartelli me ne ricordavano altri, di quando ero ragazzo e si andava a caccia di qualche posto dove fare il bagno, “vietato nuotare acque pericolose”, si leggeva ai bordi del canale Villoresi dalle parti di Nova Milanese, ma noi facevamo finta di non averli mai letti!

Quel canale, infatti, era la nostra piscina naturale - un’acqua amica. Per me, addirittura, l’accademia che mi portò al nuoto agonistico. Passarono parecchi anni prima di cambiare territorio nautico, traghettando dal “vietato nuotare acque pericolose” del Villoresi, a quello ben più importante del “divieto di balneazione” dell’Idroscalo. La cosa buffa che ricordo - e che divenne materia di un articolo sulle cronache locali dei giornali milanesi - erano quei pescatori che volevano tirar su qualche alborella per poi farsi a casa un buon fritto: leggevano il cartello e temendo di finire nel mirino dei vigili, facevano dietrofront, riponevano cestelli e lenze e tornavano a casa, più mogi di un corridore in fuga per quasi tutta la tappa che veniva rimontato proprio sul filo del traguardo.

Ma io, durante quelle biciclettate al Parco, preferivo lasciare sfogare l’entusiasmo post Tour dei cicloamatori. cercavo il punto più fresco, all’ombra, e confortevole. Se vedevo libero uno dei tavoli che si trovano lungo il perimetro del laghetto, sprintavo per occuparlo. Mentre ansimavo per lo sforzo dell’allungo, cercavo il mio smartphone, ed infilavo le cuffie. Mi sentivo in paradiso. Appagato. La tromba di Miles Davis mi dava questa sensazione, e i brividi del sudore forse non erano del sudore ma della commozione. Amo il jazz. Amo Miles Davis. Amo la sua magnifica “Human Nature”. La sua musica è stata innovativa. Modernissima allora, ancora attuale oggi.

Ricordo - è successo l’estate scorsa, un pomeriggio bollente di lugli - che un ragazzo di colore si mise accanto a me, io ero arrivato da pochi minuti, lui veniva dal vicino campo di accoglienza di Bresso. Sentiva Miles Davis e l’accompagnava tamburellando con le dita sul tavolo. Gli spiegai che stavo ascoltando Miles, ma lui la conosceva. Gli piaceva. Ero colpito dal fatto di aver incontrato un giovane venuto chissà dove da quale parte d’Africa, che aveva attraversato deserti, mare, che aveva patito tanto. Ed eccolo che apprezzava Miles, mentre da noi questa musica sembra destinata a finire in soffitta...volevo saperne di più, di questo ragazzo. Non lo ha scritto anche Pierangelo Buttafuoco che bisogna lasciarsi guidare dalla curiosità, dall’istinto, dalla voglia di conoscere? “Se le capiterà di incontrare, andando al sud, un emigrato, un ambulante, provi ad interrogarlo sulle cose del mondo: vedrà che le farà un racconto di geopolitica degno delle migliori pagine di Limes”.

Intanto, era sopraggiunto un altro giovane, amico del ragazzo nero e se ne erano andati via insieme, dopo avermi salutato. Più in là, nell’ultimo dei tavoli, c’era un gruppo di amici - di quell’età che è quella “in là negli anni” - che strimpellavano con una chitarra “Ma l’amore no”, e la straziavano con le loro voci non proprio eccelse. Accanto a me, nel tavolo più vicino, sedeva invece una signora che si pigliava il sole come se fosse stata ai Caraibi. Il tempo di darle un’occhiata più attenta che lei si alzava per raggiungere una coppia di anziani, “ciao Angelaaaa!”, “ciao Giuseppeeee!”: le dinamiche sociali del tempo libero al Parco.

Mi accorsi che si stavano dirigendo verso il mio tavolo ed io provvedetti a spostarmi per far loro posto. Mi accorsi che la signora Angela si muoveva con un certo disagio, e stavo per aiutarla quando fu Giuseppe ad occuparsene, con amorevole attenzione. Benché leggermente affannato, Giuseppe - in piedi, alle spalle della donna - le accarezzava i capelli. La signora del sole continuava a chiamarla, ma Angela era come assente, il suo sguardo puntava lontano, come a cercare qualcosa di cui non si ricordava più. Mi resi conto che Angela aveva l’alzheimer: la sua vita si era interrotta. Chissà dove. Chissà quando.

Giuseppe e Angela non erano marito e moglie, ma entrambi vedovi. Si erano conosciuti in una sala da ballo del liscio e si frequentavano ormai da molti anni. Questo mi disse Giuseppe, che si era nel frattempo seduto al fianco di Angela, e stava dispiegando una tovaglietta colorata, rossa in prevalenza: l’aveva presa da una borsa, ed aveva l’orlo cucito a mano. Angela la stese ammodo sul tavolo, ogni tanto l’accarezzava quasi l’orlo fosse una pista della memoria da seguire; la ripiegava e di nuovo la stendeva. Un gesto meccanico, ma familiare. Giuseppe con un occhio la controllava, con l’altro badava a non far guai nel preparare la merenda, un bicchiere di tè, una fetta di torta. Con pazienza, la imboccava e le puliva le briciole che le rimanevano sulle labbra.

Guardavo il sole, e pensavo che dava vita a tutti noi. Stava calando lentamente, il pomeriggio si spegneva, era tardi, dovevo rientrare a casa. Mi alzai, li salutai. Giuseppe mi disse: “Domani siamo ancora qui”. Quasi un invito.

Mi allontanai con malinconia. Dentro al cuore mi portavo quel quadretto d’amore. Capii che dovevo rivederli. E così, il giorno dopo, mi diressi di nuovo al laghetto, a quel tavolo. Ci arrivai presto e vidi di nuovo la signora che pigliava il sole, sempre più abbronzata. Alla stessa ora del giorno precedente, arrivò la coppia anziana. Si sedettero. Rimasero in silenzio. Si vedeva che qualcosa tormentava Giuseppe. Pochi minuti e il vecchio si mise a singhiozzare, tra le braccia dell’amica abbronzata.

“Che c’è Giuseppe? Che cosa è successo?”.

“Lunedì me la portano via”, disse con la voce rotta dal pianto, “domani me la portano via”, ripetè più volte. D’un tratto, smise di piangere. Si asciugò gli occhi. Ci fissò. E disse: “L’ha deciso suo figlio, la portano in una casa di cura. Ma perché?”.

“Forse per curarla meglio...”, cercammo di rincuorarlo noi.

“Non le facevo mancare nulla, oggi l’ho portata al centro sociale dove c’era musica e si balla: l’ho conosciuta proprio in quel locale, mi pareva che guardasse chi ballava, e le piacesse...”.

Giuseppe era straziato dal dolore. Lo immaginai mentre ballava stretto stretto alla sua Angela. Non avevamo parole che potessero consolarlo. Siamo rimasti assieme ancora per qualche minuto. Non ci fu un arrivederci. Non un saluto. O un addio. Angela e Giuseppe si allontanarono, lenti, senza voltarsi indietro.

Qualcosa di importante mi è rimasto dentro: sapevo che non li avrei più visti, non insieme. Ma nella mente mi rimase la loro immagine, come la prova che l’amore, a volte, sa essere vita e altre, separazione.

Rientrando, pensavo che ne sarà del Giuseppe, che farà... Intanto il parco continuava con la sua vita. I ragazzi a far selfie. I cicloamatori a pedalare, e un gruppo, seduto sull’erba, intonava melodie d’amore.

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